L’itinerario fra i musei italiani ci conduce a Brescia, presso la Pinacoteca Tosio Martinengo: della sua collezione, il Ritratto di giovane con flauto di Giovanni Gerolamo Savoldo, è uno dei pezzi più noti. L’artista bresciano visse ben poco nella sua città natale, lasciata in giovane età per seguire gli incarichi di lavoro nelle diverse corti italiane. Di lui, non conosciamo né la data di nascita, da collocarsi a ogni modo fra il 1480 e il 1485 né quella di morte, successiva al 1548. Quanto al Ritratto, si pensa che sia stato dipinto intorno al 1525.
Il quadro raffigura un giovane nel suo studio: è seduto, ha l’aria assorta, veste con eleganza, sfoggia un collo di pelliccia e porta un cappello a falde larghe, che proietta un’ombra sulla parte superiore del viso. Si volge verso lo spettatore nell’attimo che precede l’esecuzione di un brano. Le dita coprono i fori dello strumento, un flauto dolce soprano rinascimentale, dal disegno meno sottile ed elegante rispetto al suo omologo barocco. Davanti a sé, il giovane ha un libro aperto su cui sono riportate le quattro voci di una polifonia, due per pagina, com’era consuetudine nelle stampe dell’epoca; alla parete, è affisso uno spartito singolo in foglio, ripiegato. Sul libro si distingue l’incipit Regina Sanctissima; sul foglio appeso compare la firma dell’artista. Il musicologo Colin Slim ha identificato il brano: si tratta della parte di tenore di una frottola, O morte holà perché mi fugi, di Francesco Santa Croce Patavino. Il Patavino, compositore perlopiù di musica sacra, era un contemporaneo di Savoldo. Quanto al giovane flautista, non dobbiamo immaginarlo come un musico di professione, ma piuttosto come un dilettante. La pratica strumentale era diffusa anche fra i pittori, primo fra tutti Giorgione, apprezzato liutista, al quale, inizialmente, era stata attribuita la paternità del dipinto. Non è da escludere che lo stesso Savoldo, fosse in grado di suonare uno strumento. Ma qual è la melodia che il giovane, da lui raffigurato, si accinge a eseguire?
L’apparente incongruenza dei due spartiti, riprodotti sulla tela, l’uno sacro e l’altro profano, può forse essere ricondotta all’uso degli stessi temi melodici in composizioni tanto destinate alla Chiesa quanto agli intrattenimenti di una corte. L’atmosfera intima e raccolta della camera, la solitudine, le caratteristiche timbriche del flauto dolce e, più ancora, l’espressione del giovane, sembrano alludere a una malinconia di natura sentimentale, un languore nostalgico, un senso d’incompletezza che solo la musica, medicina dell’anima, può placare. L’armonia delle diverse voci, impossibile da riprodurre con un singolo flauto, deve quindi risuonare nella mente, essere per così dire postulata e rievocata durante l’esecuzione della melodia.
La frottola Io non compro più speranza di Marco Cara, il cui testo esprime amarezza e disillusione, può richiamare, per alcuni versi, la tonalità emotiva del Ritratto. Nato a Verona, ma vissuto a Mantova, alla corte dei Gonzaga, per buona parte della sua esistenza, Marco Cara fu il più raffinato compositore italiano dell’epoca. Univa la freschezza dell’invenzione melodica con il senso innato dell’armonia e una felice corrispondenza fra versi e musica. Citato nel Cortegiano per la sua abilità di cantore, venne tenuto in altissima considerazione da Isabella d’Este, protettrice delle arti e figura centrale nella cultura musicale italiana del primo Cinquecento. Le sue frottole preludono alla nascita del madrigale cinquecentesco, che vedrà eccellere, qualche decennio più tardi, un altro bresciano, Luca Marenzio.
In una frottola, composizione polifonica a quattro voci, la voce di soprano, a carattere melodico, era l’unica a essere effettivamente cantata mentre le altre parti venivano realizzate da un liuto o da un ensemble. Nulla però vieta di figurarci che sia il flauto del giovane melanconico a eseguire la melodia, nel tentativo di riportare alla memoria la lontana suggestione del canto della donna amata.
Stefano Iatosti